Non piace iniziare a trattare questo tema partendo da Matteo Salvini, ma è proprio da lui che è stato sferrato l’ultimo attacco. Più una sparata che un attacco, ma sempre di questo si tratta perché con una sola frase ha cercato di mettere in discussione aborto, donne e migranti. Una bella tripletta.
Peccato che la sua supponenza (o quella dello staff che lo consiglia) lo abbia fatto incorrere in un grossolano errore. Ha affermato infatti che donne migranti sarebbero andate anche sei volte al Pronto Soccorso per l’interruzione della gravidanza e che questa non è una soluzione a “stili di vita incivili”. Peccato che per iniziare le procedure per l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) bisogna recarsi al Consultorio e non al Pronto Soccorso.
Ma questi sono soltanto piccoli sassolini nella scarpa.
Purtroppo la Legge 194/78 (nota anche come legge sull’aborto) è già da parecchi anni sotto assedio a causa del persistere della possibilità, per il personale dei presidi sanitari a ciò addetti, di ricorrere alla cosiddetta “obiezione di coscienza”. La percentuale varia a seconda delle regioni, ma in alcuni casi – soprattutto nel sud – il fenomeno tocca la quasi totalità di medici ed infermieri comportando una triste e dispendiosa migrazione verso regioni più disponibili. Non dimenticando il rischio sempre presente di sforare i limiti di tempo consentiti per effettuare l’intervento.
A questo si aggiungono le campagne portate avanti dai cosiddetti “ProVita” (di riferimento ideologico cattolico fondamentalista o neofascista), che attualmente si muovono su diversi fronti, forti anche di una rete di potenti e munifici finanziatori. Da una lato abbiamo la “tradizionale” presenza in ospedali, consultori e istituti di formazione di ogni ordine e grado, unitamente alle campagne pubblicitarie in senso stretto. Dall’altro una rete transnazionale di gruppi anti-scelta fa opera di lobbing sugli organi istituzionali. In questo senso in Italia abbiamo assistito al tentativo, più o meno riuscito, di far approvare agli Enti Locali carte d’intenti che mirano a condizionare le scelte delle donne, spesso usando come pretesto la tutela della loro salute. Si tratta ovviamente di una mera strategia: l’aborto è una pratica medica e in quanto tale comporta dei rischi, ma anche gravidanza e maternità possono comportare problemi fisici e psicologici. E il parto di per sé non è certo meno rischioso per la salute della donna. È chiaro che l’interesse non è rivolto alla tutela della vita umana in sé, quanto piuttosto al suo disciplinamento in senso tradizionalista.
I movimenti femministi si sono perciò schierati a difesa della 194, consapevoli che in questo momento una sua ridiscussione potrebbe comportare un peggioramento se non la sua cancellazione.
Secondo noi invece è importante conoscere la sua genesi e mantenere un distacco critico.
Negli anni ’70 in Italia l’aborto era illegale e veniva punit* severamente tanto chi lo praticava quanto chi vi ricorreva. In quel periodo si era sviluppato un forte movimento di donne che chiedeva con determinazione l’abolizione del “reato di aborto” e che contestualmente si organizzava in reti di supporto e di accesso a pratiche sicure ed economiche e nel sostegno alle vittime della repressione.
Si erano così costituiti in tutta Italia molti gruppi che, partendo dalle proprie esperienze in tema di salute, sessualità e aborto, avevano dato vita a critiche approfondite e radicali alla scienza medica e alla sua istituzionalizzazione, alla sessualità patriarcale e a cosa significasse fare politica. Queste pratiche dal basso vennero poi in massima parte recuperate dalle istituzioni, in primis con la legge che istituì i consultori (L.405/75), che disciplinò ed integrò nel servizio pubblico i consultori autogestiti in cui si continuava a partire dai bisogni dei propri corpi.
La Legge 194 risponde alla necessità ideologica di costituire un corpus di norme a sé stante, a disciplinare non tanto una pratica medica quanto una “questione morale”.
Prima del 1800 l’aborto non era medicalizzato né legiferato. Nel diritto romano, ad esempio, il prodotto del concepimento era considerato a pieno titolo parte del corpo della donna; tale prevalentemente resta fino al Concilio Tridentino. E’ in questa fase che la Chiesa Cattolica dà inizio al processo di criminalizzazione, sulla base di un astratto “diritto alla vita”. Tra il 1800 e il 1900 lo Stato si sostituisce alla Chiesa nella pretesa di controllo, non più delle anime ma della popolazione, in una fase di sviluppo dei nazionalismi, che porta con sé un rivisitato concetto di stirpe e la conseguente necessità di controllare la riproduzione. Riprendendo Foucault, sicurezza, territorio e popolazione diventano fulcro delle nuove pratiche di governo. L’aborto diventa quindi un affare di Stato, e tale è rimasto fino ai giorni nostri.
Non sorprende quindi che il nome della legge 194 sia in realtà “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”.
Come appare chiaro fin da principio, non si tratta di una scelta della donna: è una concessione che il medico fa, a sua discrezione, qualora ritenga che non vi siano le condizioni necessarie per una gravidanza. Questo emerge in maniera molto chiara negli artt. 4 e 5.
Il primo esplicita come il ricorso all’IVG sia possibile solo in date circostanze “per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica”.
Il secondo specifica che è dovere del medico accertarsi che le cause dell’aborto siano irrimediabili. Se non c’è valutazione d’urgenza, egli è tenuto a invitare la donna a riflettere -obbligatoriamente – per 7 giorni e a prospettare nel contempo “soluzioni alternative”. Si dà per scontato il desiderio di maternità, ostacolato solo da impedimenti sociali che le strutture dovrebbero contribuire a rimuovere (come questo avvenga, nei fatti e al di là dei patetici “bonus bebè”, resta tuttora un mistero).
Altri punti pregnanti sono l’art. 2, relativo ai Consultori familiari e il più noto art. 9 che disciplina la cosiddetta “obiezione di coscienza”.
Nell’art. 2, si delineano i consultori come servizi per la maternità e luoghi deputati “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”, piuttosto che spazi di supporto all’autodeterminazione. Il medesimo articolo cita la possibilità di collaborazioni con non meglio precisate “idonee formazioni sociali di base” e “associazioni di volontariato”, per “i fini previsti dalla legge”. Tale generica definizione si è rivelata nei fatti il biglietto di ingresso dei gruppi “ProVita” nei consultori pubblici.
Perciò, come si evince da quanto scritto sopra, questa legge è monca, accondiscendente, limitante. Da un lato afferma il principio che sia il potere medico a decidere della legittimità dell’operazione, sempre presentata come “extrema ratio”. Dall’altro, anche se oggi le pressioni non arrivano al rifiuto esplicito – al caso, vi è il ricorso alla pratica dell’obiezione – è un’arma potenzialmente sempre carica e puntata, che offre al medico la possibilità in qualsiasi momento di decretare che nel caso specifico non esiste pericolo per la salute, negando quindi l’intervento.
La scelta di affidarsi alla Legge impone di delegare alle istituzioni, e di impegnare tempo ed energie nella difesa piuttosto che nell’immaginare e praticare un mondo diverso.
Si sente spesso dire che “una società come si deve aiuta le donne a non farlo” o che l’obiettivo è “il tasso zero di aborti”. Noi crediamo invece che l’obiettivo debba essere quello di una reale possibilità di scelta. Il che significa un pieno accesso alle risorse informative e materiali. Ma anche
rimuovere la violenza, la costrizione a cedere al desiderio sessuale del maschio, la sessualità centrata sul coito, gli ostacoli materiali e di benessere che impediscono una gravidanza serena alle donne che la desiderano e la contraccezione gratuita per tutte le altre.
Queste sono le nostre lotte e i nostri compiti. Non ci riguardano invece in alcun modo le scelte concrete delle singole donne, che non vanno in sé né indagate né discusse, compatite o “giustificate”, ma solo supportate collettivamente.
Asia (in collaborazione con CA)